La “fortuna” della Ducati è partita dalla 916?

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pico66
00lunedì 24 maggio 2004 18:41
Possiamo affermare che la rinascita della Ducati iniziò proprio con questa gloriosa moto? E se non fosse mai stata inventata, dove sarebbe la Ducati ora? Voi che ne pensate?



Difficile fare un preambolo per una moto del genere senza cadere nella retorica... Sulla 916 e suoi derivati è stato scritto e riscritto tutto, quindi sapendo già di non dire nulla di nuovo, vedrò di cominciare dal principio, dal "c'era una volta.. un re!! ... no, cari bambini, c'era una un bicilindrico desmodromico…."
Nel 1986 la Ducati mostrò al mondo di non essere la classica casa italiana arroccata sul suo passato, ed ebbe il coraggio di sfidare il mondo (ma soprattutto i giapponesi) rivoluzionando il mitico polmone progettato dal grande ing. Taglioni (pace all'anima sua...) trasformandolo in un'unità modernissima, dotata di raffreddamento a liquido, quattro valvole per cilindro e addirittura l'iniezione elettronica, per equipaggiare la famosissima 851. Gli inizi furono incoraggianti, tanto che nel '90 questa moto strappò alla Honda il titolo Superbike con Raymond Roche, ma qualcosa già bolliva in pentola. C'era un gran fermento al CRC, il centro di ricerca Cagiva capitanato da "quel gran genio di (cit. Battisti)" Tamburini, e tutti gli sforzi erano protesi verso il fantomatico "Progetto Rimini", che prendeva il nome dal fatto che la sede del centro di sviluppo era sita proprio nella cittadina romagnola.

Si lavorava come ossessi, rincorrendo con maniacale cipiglio ogni minimo particolare, un po' per via dell'importanza strategica che il nuovo prodotto aveva (non ci si poteva quindi permettere di fallire) e un po', anzi soprattutto, per via dell'estrema pignoleria di Tamburini, che non voleva semplicemente creare un'ottima moto: voleva stupire il mondo con un nuovo modo di concepire la progettazione, un "modus operandi" in cui ogni singolo aspetto della definizione della motocicletta doveva essere sinergico con tutti gli altri, dove il design doveva andare a braccetto con la funzionalità, dove la tecnologia doveva asservire il cuore, e viceversa. Proprio per questo la nuova "Ducati Rimini" era così diversa da tutte le altre moto; per la prima volta una motocicletta si presentava al mondo con un design estremamente innovativo ma allo stesso tempo votato esclusivamente alla funzionalità racing della sua anima. Ogni suo singolo particolare faceva chiaramente capire di che pasta fosse fatta la moto, e in più anche il più infimo dettaglio era inenarrabilmente bello da ammirare, sia che si trattase di un tronchetto del manubrio, della pompa del freno o di una vite della carenatura.

Fu così che al Salone di Milano del 1993 furono tolti i veli ad un autentico capolavoro, che ha tracciato una strada nettissima sia nel design che nella tecnica del motociclismo moderno. Da quel giorno tutte le concorrenti hanno dovuto inseguirla e copiarla: occhietti sdoppiati e accigliati sono comparsi sulle carene delle moto giapponesi, mentre anche gli albionici progettisti a tre cilindri hanno installato forcelloni monobraccio a gogò. Ma siamo già andati troppo avanti. Concentriamoci su quel memorabile Salone di Milano del 1993; lei è lì, sulla pedana, e magari nemmeno si rende conto di quanto sia bella, ma di sicuro, da civettuola femmina romagnola qual'è, si bea degli sguardi attoniti degli astanti. Le tondette e giunoniche forme della vecchia (ma sempre pimpante) 851/888 hanno lasciato il posto a forme affilate, delineate da tagli netti e decisi come colpi di fioretto, che trasmettono un senso di dinamismo mai visto.

Il cupolino, che nella 851 era rotondo e rassicurante come la Cappella Sistina, ora è piccolo, appuntito, maledettamente schiacciato sul manubrio, ed esibisce un doppio faro appiattito che ha fatto scuola. Insomma, il muso è ora una punta di freccia pronta a fendere l'aria con tutta la cattiveria delle sue bocche di aspirazione, che da sotto il faro segnano il principio di una carenatura attillata come una pelle sugli organi meccanici sottostanti; il serbatoio teso e movimentato sembra un fascio di muscoli da purosangue, come i fianchi di uno stallone da cingere con forza durante la corsa, la piastra di sterzo è un vero gioiello, con quell'ammortizzatore trasversale e la chiave incassata tra il cannotto e il serbatoio, mentre il codone, alto e bello come solo il sedere di una moto da corsa sa essere, ospita due terminali ovali e un portatarga striminzito.

Certo, da bravo hondista non posso non precisare che questa soluzione (lo scarico sotto il codone) fu introdotto dalla Honda NR 750 (che fu presentata l'anno prima), ma alla Ducati va il merito di aver diffusa e resa famosa questa soluzione, trasformandola in una vera moda, al pari del forcellone monobraccio, che fu usato per facilitare il cambio gomma nelle gare di endurance; la ruota posteriore a sbalzo a tre razze ha un che di erotico, e quasi ipnotizza, in movimento. Onore e gloria alla scuola e alla fantasia latina !!
La tecnica di questa moto era un affinamento ed un'estremizzazione di quanto visto sulla 851/888, ovvero un motore bicilindrico desmo raffreddato a liquido con iniezione e 4 valvole per cilindro, il tutto incastonato in un telaio a traliccio in tubi di acciaio al CrMo. Si è parlato talmente tanto di questo motore che ormai anche i muri conoscono i benefici del decantato sistema di comando desmodromico, che permette un controllo accuratissimo della corsa delle valvole, permettendo alzate impensabili (sia in termini di durata che di escursione) con il sistema di richiamo a molle; il "Desmo" donava un alone di esclusività indispensabile per distanziarsi dalle giapponesi (era pura follia pensare di batterli sul loro stesso piano, quindi l'unica via da seguire era il perseguire una propria e personale strada) e in più consentiva di tirar fuori qualche cavallino in più, dato che i valori assoluti non facevano certo strappare i capelli (le prime 916 arrivavano intorno ai 104 CV alla ruota, roba che adesso fa un 600...).

Ciò che rendeva la 916 assolutamente unica e inavvicinabile dalle "mangiariso" non era quindi il pompone (pur piacevolissimo da usare), ma la sua ciclistica da favola; per la prima volta nella produzione mondiale, una maxi poteva spuntare allo slalom tempi da 125 (pur a prezzo di un notevole sforzo) ed una maneggevolezza da media cilindrata, pur conservando una precisione ed un rigore di sterzo che le avversarie potevano solo sognare. Sentire l'avantreno saettare da una curva all'altra, mantenedosi allo stesso tempo solido come un aratro a centro curva, era un'esperienza commovente, ai limiti dell'incredulità. Le sospensioni, rispetto a quanto all'epoca montavano le giapponesi, erano di un altro pianeta, e mettevano il perno dello ruota anteriore direttamente sui manubri, facendo percepire al pilota anche il più piccolo osso di formica incontrato sulla strada. Tutto questo portava a spingere sempre di più, ad aprire il gas sempre prima per sfruttare il tiro caparbio e imperioso del trattor... ahemm, motore, confidando in una tenuta di strada ed una guidabilità ineguagliabili da una qualsiasi altra moto di serie. Insomma, si rinverdiva il solito asserto secondo cui le bicilindriche si riprendevano nella guida ciò che le quattro guadagnavano in rettilineo. Oltretutto, nel corso degli anni, il pompone si è messo pure ad andare mostruosamente forte anche sul dritto, oltre che in uscita di curva... Questa ciclistica da riferimento verteva sul classico traliccio di tubi in acciaio, ed era uno scheletro estremamente rigido (quindi preciso), e leggero quanto una struttura in alluminio.

A differenza della 851/888 però, il telaio non si interrompeva più dietro al cilindro posteriore, lasciando al solo carter motore il compito di sostenere il perno del forcellone, ma andava ad abbracciare tale punto con la sua triangolazione inferiore, così da delineare un insieme più rigido e "solido". Già, il forcellone. Questa stirpe di moto ha avuto il pregio di far tornare in auge il monobraccio, soluzione che fino ad allora si era vista solo sulla Elf NSR 500 di Ron Haslam o sulla Honda NR 750 (scarichi sottocodone, monobraccio... ma la Ducati non ci si sarà ispirata un po' troppo a questa benedetta NR? scherzo...); tecnicamente la scelta era opinabile, in quanto un monobraccio è estremamente più costoso da realizzare, ed oltretutto difficilmente riesce ad essere rigido come un tradizionale bibraccio, ma consentiva un più veloce cambio ruota, e poi era maledettamente bello da vedere. All'avantreno troneggiava una forcella rovesciata Showa (con steli da 43 mm di diametro) che avrebbe fatto perdere il sonno a qualsiasi Fireblade (l'avversaria nipponica di allora), ed un sistema frenante Brembo composto dai canonici due padelloni da 320 mm lavorati da due bellissime ed efficacissime pinze fisse a 4 pistoncini. Completavano il quadro due cerchi a tre razze volventi talmente belli da sembrare opere d'arte (francamente non mi dispiacerebbe un cerchio posteriore della prima serie da appendere in salotto, al posto del quadro del nonno...), e che da soli denotavano la pignoleria di Tamburini: un esempio su tutti, fermandosi ai soli cerchi, è la valvola dell'aria piegata di fianco di 90°, in modo da consentire il gonfiaggio del pneumatico senza dover infilare il tubo della pistola dell'aria compressa attraverso le volute dei dischi freno; saranno anche pippe mentali, ma i motociclisti malati di mente come me ci vanno in sollucchero, con queste chicche...

Il motore, come detto, era un 888 vitaminizzato ed ottimizzato; meccanicamente risentiva, almeno nelle prime serie, della nomea Ducati, lamentando una certa difettosità meccanica (non sono pochi i clienti delle prime serie che sono rimasti fermi a bordo strada con valvole piantate nei pistoni o cinghie dechappate) e soprattutto un impianto elettrico approssimativo (qui sono ancora i giapponesi a dettare legge). Sono tutte cose che nel tempo, specie dopo l'avvento degli americani della TPG nell'assetto societario, sono via via sparite grazie ad una miglior selezione e "catechizzazione" dei fornitori e soprattutto grazie ad un controllo qualitativo degno di questo nome, ma le prime annate non sono state esenti da guai.
Il carattere di questa moto era estremamente forte, da tipica femmina bollente romagnola: non era la tipica giapponese, che cerca sempre di mettere a proprio agio chi le monta in groppa; qui il pilota era chiamato ad un compito arduo, ossia domare un bel po' di generosissimi cavallini imbrigliati in una ciclistica rigidissima e precisissima, che vantava limiti elevatissimi (ma quanti superlativi...) ma che richiedeva un fisico allenato ed un folto pelo sullo stomaco per essere condotta ai ritmi a lei consoni. Chi sedeva su quel sellino duro come il marmo aveva da combattere con una posizione di guida a dir poco "scomoda", con pedane alte e manubri bassi, mentre il cupolino serviva giusto per non far spiaccicare i moscerini sulla strumentazione, o poco di più. Il comfort fu probabilmente l'ultima voce che Tamburini considerò nel "Progetto Rimini", ed infatti la vita a bordo della 916 era una vera turtura su strada, specie per il fisico poco allenato del motociclista medio. Senza contare la notevole trasmissione di calore, dovuta al cilindro posteriore e alle volute degli scarichi che passavano proprio sotto la sella, che portavano a precoce "cottura" tutto quanto in "zona Cesarini...”.

Tutto, dalla posizione di guida al carattere della ciclistica, era pensato per spuntare il miglior giro in pista, ed infatti tra i cordoli non si poteva immaginare un'impostazione migliore, almeno agli occhi del pilota superallenato, ma su strada lo chassis rigido non rendeva affatto la vita facile. Ogni tombino era una sofferenza, e le vibrazioni sono sempre state consistenti ("fa parte del carattere", hanno sempre sostenuto i ducatisti...), magari non fastidiossime, in quanto di bassa frequenza, ma abbastanza ragguardevoli, e tutto ciò, unito ad un assemblaggio generale che nei primi esemplari era da tipica "scuola italiana" (cioè un po' tirato via), faceva sì che perdere pezzi in giro non fosse un'eventualità tanto remota. Ho visto più di un 916 perdere il portatarga o uno specchietto dopo una buca, il che poteva essere divertente per gli amici del malcapitato, che veniva sfottuto all'inverosimile una volta in cima al passo della Futa, ma non era molto simpatico per il proprietario, che dopo aver sborsato una valanga di milioni era costretto a fare l'inventario dei pezzi ad ogni ritorno in garage. Fortunatamente tutto questo è adesso solo un ricordo; assemblaggi e componentistica (elettrica) sono adesso al livello della concorrenza, la quale però non ha ancora raggiunto il suo carisma. Per quanto io ami l'ala dorata, non posso non ammettere che quando sono fermo a chiaccherare con gli amici, la gente si fermi sempre ad apprezzare la Ducati di turno, rivolgendo troppi pochi sguardi alla mia (pur bombardata) Fireblade, il che mi fa rosicare non poco...

Insomma, il carattere ed il fascino non sono mai stati in discussione, ma nel corso degli anni le prestazioni e la guida sono state via via avvicinate anche dalle più abbordabili giapponesi, e in quel di Bologna ci si è visti costretti ad aggiornare la propria ammiraglia per rimanere al passo col mercato. Non solo la cilindrata è cresciuta, di pari passo con quanto avveniva nel campionato SBK, ma si sono susseguite tutta una sfilza di serie speciali, vere perle di allestimento e prestazioni. Fu così che la 916 diventò 996, poi 998, prima mono poi biposto, con le punte di diamante costituite dalla versione SPS (che era l'edizione racing) per poi finire alla raffinatissima 996R, che è la più alta espressione evolutiva di questa famiglia di moto. C'è da rimarcare come le modifiche e le raffinatezze delle versioni SPS e R passassero l'anno successivo alla versione "popolare", come ad esempio avvenne col motore Testastretta, introdotto nel 2001 sulla fantastica 996R e poi allargato, pur con qualche differenza, anche alla 998 Biposto.
Sempre la 996R introdusse anche l'unico cambiamento stilistico della famiglia, ossia le carene "lisce", con gli sfoghi dell'aria calda del radiatore non più costituiti dalla classica apertura sui fianchi ma da due finestrelle all'altezza delle ginocchia del pilota.

Ecco, proprio questo particolare suggerisce uno spunto per rimarcare quanto limitate siano state le modifiche alla linea di questo intramontabile classico, che praticamente dal '93 non sono cambiate di una virgola, mentre invece sotto quel vestito immutabile le modifiche si sono rincorse incessantemente. Nel 95 arrivò la sospirata (dalle fidanzate) versione biposto, mentre tre anni dopo, prendendo a prestito il motore SPS (addomesticato) dell'anno prima, fece la sua comparsa la 996, che si portò in dote un miglior assemblaggio, l'impianto frenate anteriore aggiornato (dischi in acciaio invece che in ghisa e nuove pasticche), e ovviamente un motore più pimpante e pieno, anche se più civile e silenzioso, rivisto non solo nella cilindrata ma anche nel sistema d'alimentazione (due iniettori al posto di uno); la 996 si è poi via via affinata, con aggiornamenti sottopelle soprattutto a livello di qualità e sistemazione dei cablaggi elettrici, mentre ciclisticamente ha visto la sostituzione dei gloriosi cerchi a tre razze con i nuovi Marchesini a 5 razze (il posteriore adesso è da 6" e calza un gommone da 190 invece che 5.5" e 180) e l'adozione del nuovo telaio “Foggy Replica", che consentiva l'alloggiamento di un airbox più grande; la sua versione R intanto sperimentò il nuovo motore Testastretta di 998 cc (e qui ci vorrebbe un capitolo intero solo per parlarne...) ed il nuovo impianto frenante anteriore Brembo "Triple Bridge", ossia il meglio del meglio prima dell'avvento delle pinze ad attacco radiale, sempre Brembo, sfoggiate dalla "nemica" RSV1000 R '03.

Al pari delle precedenti versioni top di gamma, la 996R montava sospensioni ultrasofisticate, tutte Ohlins, un telaio rivisto e corretto e dettagli al top, tra cui non si può non citare la strabiliante carenatura in fibra di carbonio, le cui scritte, invece che essere decals adesive come da prassi, altro non erano che gli spazi non verniciati delle sovrastrutture, che lasciavano scoperta la scura ed eccintante trama nera. La solita orgia di carbonio per parafanghi, protezioni varie completavano il quadro di uno degli oggetti del desiderio che ogni motociclista, anche il più accanito dei filogiapponesi, vorrebbe nel proprio garage. Scendendo dalle nuvole (ma non di molto), la 998 eredita il motore Testastretta, pur con la coppa ridisegnata (la 996R aveva un pozzetto più profondo per facilitare il pescaggio dell'olio anche in condizioni critiche di assetto) e parametri un filo meno spinti, e anche l'impianto frenante anteriore, orfano del "Triple Bridge", sfoggia nuove flange più leggere ed essenziali. Ormai siamo giunti ai giorni nostri. Con la 998, la Ducati è giunta al massimo sviluppo di un progetto di uno dei geni del motorismo italiano; adesso il testimone è passato in Sudafrica nelle mani di Pierre Tierblanche, che giustamente ha lasciato la 998 lì dov'era ed ha ideato una moto tutta nuova (la 999), perchè ciò che Tamburini ha creato è un'opera d'arte che non poteva essere stravolta…



Modello: Ducati 916

Carat. motore: 4 tempi, bicilindrico a V di 90 gradi, raffr. a liquido; alim. a iniezione elettr. ; ditribuz. DOHC 4 valvole per cilindro a comando desmodromico comandata da cinghie dentate

Alesaggio x Corsa: 94x66 mm

Cilindrata: 916 cc

Rapp. di compressione: 11:1

Potenza max: 105CV @ 9000 rpm

Interasse: 1410 mm

Incl. cannotto di sterzo: regol. da 23.30° a 24.30°

Avancorsa: 91/97 mm (a seconda della regol. del cannotto)

Pneum. (A/P): 120/70-17 180/55-17

Sospensione ant.: forcella rovesciata. Showa steli 43 mm (escurs. 130 mm)

Sospensione post.: forcellone oscillante monobraccio con monoammortizzatore Showa reg. (escurs. 130 mm)

Freno ant.: doppio disco flottante 320 mm con pinze Brembo fisse a 4 pistoncini

Freno post.: disco singolo fisso 220 mm con pinza Brembo fissa a 2 pistoncini

Altezza sella: 790 mm

Capac. serbatoio: 17 l (4 ris.)

Peso a secco: 198 kg

Vel. max. : 260 km/h

astaroth2000
00mercoledì 26 maggio 2004 05:19
per me
per me in assoluto la piu' bella moto concepita dall'uomo,e lo dice un amante delle jap!!!!![SM=x35577] [SM=x35577]
linusdromico
00mercoledì 26 maggio 2004 08:59
La moto, tra le moto, piu' bella in assoluto mi associo.
La fortuna della ducati e' stato piu' ke il 916 ..il monster
ma tra le sbk il 916 e' stato un vero prodigio...il progetto Rimini e' stato un successone! ma la vera fortuna della ducati e' avere UNA CLIENTELA APPASSIONATA.....[SM=x35595]
maialino 69
00mercoledì 26 maggio 2004 09:27
Pi'...la nove-uno-sei è un capolavoro...una pietra miliare..nella tecnica, nella ciclistica e nel design motociclistico...
come dice zio Reci...è nata dalla passione di Tamburini...e, sinceramente, nn capisco (e spero ke qlcn me lo spieghi), perché sia andato via dalla Ducati... mah! [SM=x35666]
ma a mio sommesso parere la fortuna della Ducati è il Monster...
...


pico66
00mercoledì 26 maggio 2004 10:49
Re:
Scritto da: maialino 69 26/05/2004 9.27
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> Pi'...la nove-uno-sei è
> un capolavoro...una pietra miliare..nella tecnica,
> nella ciclistica e nel design motociclistico...
> come dice zio Reci...è nata dalla passione di Ta
> mburini...e, sinceramente, nn capisco (e spero
> ke qlcn me lo spieghi), perché sia andato via dalla
> Ducati... mah! [SM=x35666]
> ma a mio sommesso parere la fortuna della Ducati
> è il Monster...
> ...

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Forse hai e avete ragione, il Monster forse è stata la fortuna della Ducati... Pensare sde non ci fosse... a quest'ora dove sarebbe la Ducati? Magari annasperebbe in progettucoli per tentare di contrastare il dominio jappo. O magari no. Chissà. [SM=x35666]


scandy
00venerdì 28 maggio 2004 10:23
La Ducati è rinata sotto il segno del Paso 750.... Voi giovanotti non potete capire... E poi l'851...

E poi quando la Ducati già andava è nato il Monster e poi ma solo poi il 916....

Chi era giovane al tempo si ricorda quanto era spettacolare vedere un Paso... [SM=x35587]
rainbowsix
00venerdì 28 maggio 2004 15:47
La 916 è sta un pietra miliare della storia del motociclismo sotto tutti i punti di vista, ma credo che il signor Massimo Tamburini non abbia ancora finito di stupire il mondo....
Secondo me lo farà anche con una moto "media" di nuova concezione che lascerà senza futuro le varie Hornet, Fazer, Z7 e compagnia....
Bisogna solo aspettare ma Tamburini ci stupirà ancora!
[SM=x35592] [SM=x35592] [SM=x35592]
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