Re: [LIBRI] Cosa state leggendo?
4.
QUESTA MUSICA MI FA CAGAREEE!
Il salone.
Il salone era il luogo in cui i miei, la sera, ricevevano persone molto
importanti. Anzi, i miei occhi da bambino di otto anni le vedevano come qualcosa
di più. Mamma e papà frequentavano spesso il mondo della musica e in casa erano
soliti ricevere personalità come i direttori d’orchestra Franco Ferrara, Pier
Luigi Urbini, Carlo Franci, i compositori Guido Turchi, Silvano Bussotti, Vieri
Tosatti, Boris Porena, il pianista Sergio Cafaro, il grande coreografo Aurel
Milloss. C’era anche Giuseppe Postiglione, un noto pianista dell’epoca per il
quale mia madre nutriva un affetto enorme; era un grande esecutore di Liszt e
Chopin e avrebbe fatto sicuramente una splendida carriera se non fosse morto
giovane. Di lui ricordo soprattutto la simpatia, l’ironia e la vivacità tipiche
dei napoletani; sul piano musicale ho potuto apprezzarlo grazie ai dischi che
aveva regalato a mia madre.
Non potendo partecipare personalmente a quelle serate, mi rintanavo nello studio
di mio padre e osservavo tutto grazie a quel famoso foro nel vetro della porta.
Ero come rapito da quel brusio di voci e risate. Ma cosa ascoltavo in realtà?
Discorsi intellettuali? Disquisizioni su teorie e tecniche musicali? No.
Ascoltavo invece conversazioni incredibilmente amene perché quegli ospiti così
prestigiosi erano in realtà molto spiritosi. Era un’atmosfera allegra, vitale,
intelligente e conviviale, dovuta all’unione di persone che si divertivano a
stare insieme. Nonostante la mia giovanissima età, restavo lì ore ad origliare e
scrutare. Non capivo nulla di musica, ma ero rapito dalla forma elegante delle
parole e dalle critiche spesso piene di sarcasmo.
Il Maestro Sergio Cafaro, da tutti riconosciuto come grande interprete di
Schumann, Beethoven e Schubert, era anche un appassionato di botanica ed
entomologia. Pochissimi sanno della sua abilità nel riprodurre con la voce
svariati tipi di rumore. Sapeva imitare l’arrivo del treno in stazione con tanto
di frenata, la mosca che ronza sull’escremento di una mucca, il passaggio di
un’ape, un moscone molesto dentro casa e anche il sedere di un elefante
utilizzando cappotto e cintura! Ma il suo pezzo forte era il rumore di chi
andava al bagno con la colite o la pipì notturna di chi soffriva di prostata… Si
faceva portare da mia madre un vaso da fiori di cristallo e riusciva a
riprodurre il flusso non fluido della pipì con il semplice ausilio di lingua,
labbra e fiato. È stato il più grande imitatore di rumori che abbia mai
conosciuto. Era un genio assoluto.
Insegnava al Conservatorio di Pesaro e conosceva molto bene la zona, ma nutriva
sconfinata curiosità anche per i posti dove andava a tenere i concerti. Aveva la
fissazione di esaminare gli elenchi telefonici di ogni città e annotarsi i
cognomi e nomi più assurdi. Arrivò al punto di pubblicare a sue spese un
libricino intitolato
Tutto un nome un programma, un mini-elenco telefonico contenente le sue
singolari ricerche. Tra i tanti nomi c’erano il sacerdote Cattiveria Don Guido,
un tale Vermouth Nino residente in via degli Amari, e poi Ragno Gelido di via
Casal di Marmo, Gagliani Aeroplano, Stecconi Bufalo, Pistola Tranquillo,
Tavoletta Rosa, Macelleria Frega, Frocione Giovanni eccetera.
Il direttore d’orchestra Franco Ferrara mi sembrava quello più serioso ed
appartato, ma ero attratto soprattutto dal suo modo di parlare a scatti. La sua
voce siciliana è stata oggetto delle mie prime imitazioni e mi riusciva
perfettamente.
Ma una volta accadde un fatto che rimase a lungo nei miei ricordi della casa. In
occasione di un martedì grasso, i miei genitori e i miei zii Gastone, Corrado ed
Ermanno (fratelli di mia madre) decisero di organizzare una festa carnevalesca
dal tema
D’Annunzio e la Duse. Tutti gli uomini dovevano essere Gabriele D’Annunzio e
tutte le donne dovevano vestirsi e truccarsi come Eleonora Duse. Alcune coppie
dovevano recitare, come in un film muto, a soggetto libero, spunti fantasiosi di
una relazione passionale e tormentata tra i due. Era tutto di una comicità
irresistibile perché alcuni invitati, obesi e brutti o magri e allampanati, non
potevano assolutamente essere il
divino
scrittore e la
divina
interprete. Fu girato anche un filmino in otto millimetri che ancora possiedo.
In sostanza, i migliori avrebbero vinto un premio assegnato dalla giuria,
composta dagli altri invitati. Mia madre e mio zio Ermanno, perfetti in quei
ruoli, vinsero senza rivali. Ma dopo tre ore di atmosfera dannunziana che aveva
un po’ rotto i coglioni, alcuni amici dei miei zii, noti playboy della via
Veneto di fine anni Cinquanta, decisero di mettere sul giradischi, a tutto
volume, dei mambi e delle bossanove per alleggerire l’atmosfera. Ben presto
l’appartamento diventò un autentico casino di musica, con tutti un po’ alticci a
ballare sfrenatamente da una camera all’altra. Sembrava una festa de
Il bidone
di Fellini, perché una coppia si chiuse nel bagno di casa per più di mezz’ora e
due donne rimasero in reggiseno.
Tutto questo indignò profondamente mio padre, che non amava affatto
quell’atmosfera da night club. E fece capire a tutti che era l’ora di andare
via, mentre mia madre cercava diplomaticamente di riportare un minimo d’ordine…
Ma senza successo. Come se non bastasse, va detto che a quella festa fu invitato
un personaggio assolutamente sbagliato. Uno che c’entrava nulla: il Maestro
Vieri Tosatti. Era un compositore di musica dodecafonica, un avanguardista che
si era rivelato nel ’46 con
Il concerto della demenza, una composizione satirica e paradossale.
Intellettualissimo, già con i capelli alla Jimi Hendrix e con due lenti da
miope, che più miope non si poteva. Era una persona inquietante perché parlava
poco, era altissimo, magrissimo e dava di sé un’aria sinistra alla Nosferatu.
Ovviamente era l’unico che si era rifiutato di vestirsi da D’Annunzio,
presentandosi volutamente come un miserabile “esistenzialista”.
D’Annunzio e la Duse: Sergio Cafaro e mia madre (1950).
Nel momento in cui la festa stava diventando un vero baccanale, dove tutti
(tranne mio padre) si divertivano, Tosatti fece un gesto “provocatorio” di
sabotaggio. Cominciò a infilare delle forcine per i capelli in tutte le prese di
corrente. Il risultato fu quello di causare un corto circuito totale. La musica
s’interruppe di colpo e la luce sparì. Restarono tutti sbigottiti e nessuno
riusciva a capire il motivo di quel blackout solo nel nostro appartamento. Si
misero tutti a cercare il guasto per più di mezz’ora, senza risultati. Mio padre
urlava a mia madre: “Accidenti a queste feste che non c’entrano un cavolo con
casa nostra! Porco Giuda!”
Zio Gastone finalmente si accorse del sabotaggio e gridò: “Vorrei sapere chi è
questo stronzo che ha messo le mollette nelle prese!… Avanti, chi è ‘sto
stronzo?!”
“Lo stronzo sono io!” urlò Tosatti nel buio pesto. “Questa musica mi fa
cagareeeeee!”
E così dicendo se ne andò, sbattendo violentemente la porta di casa.
Fu subito rincorso dai miei zii e dai loro amici che dalla tromba delle scale
gli urlarono: “A fallitooo! A testa de cazzooo! A stronzooo!”
La luce tornò e con lei la musica. Mio padre e mia madre, storditi, erano l’uno
accanto all’altro seduti in cucina. Maledicendo l’idea di quella che doveva
essere una festa elegante di Carnevale, si guardavano attoniti. Non sapevano
come fare per mandare via la gente una volta per tutte. Mio padre dava dei pugni
violenti sul tavolo, ma faceva ridere perché era ancora vestito da D’Annunzio. A
mettere fine al tutto ci pensò, involontariamente, zio Ermanno che entrando in
cucina rincarò la dose: “Mi meraviglio di come invitate alle feste uno stronzo
come quello!”
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mio padre si alzò di scatto e iniziò a
urlare: “Via tutti! Via tutti! La festa è finita!… Fuori, fuori tutti!”
Mia madre fu presa da un attacco d’ansia e iniziò a piangere. E pian piano la
gente capì che non era più il caso di restare a casa Verdone.
“Andiamo tutti da me!” fece l’architetto Censi, famoso donnaiolo di Riccione
amico di zio Gastone. “Riprendete tutti i dischi, dai!”
La gente defluì rapidamente. Molti non salutarono nemmeno. Gli amici intimi si
sforzarono invece di consolare papà e mamma, umiliati e confusi da quel casino
così lontano dalle loro pacate serate. “Mai più… Mai più!” strepitava furibondo
mio padre. Ma faceva sempre ridere perché mezzo baffo “dannunziano” gli si era
staccato da sotto il naso.
Perché ricordo con grande divertimento questo episodio? Perché quando da
universitario mi accostai al cinema di Fellini, capii la sua assoluta grandezza.
Perché quella sera a casa Verdone c’era stata una lunga sequenza di un suo film
in bianco e nero. A cavallo tra
Il bidone
e
La dolce vita.
che bello questo libro di Verdone